lunedì 8 settembre 2008

anche per morire c'era un modo migliore

l'uomo di Perugia che suonava il violino. ce l'ho stampato in testa. dal naso grosso. a parlare con te di vecchi cortometraggi ambientati nei Balcani. di guerre d'altri tempi. del secolo scorso. parole che rapiscono orecchie senza troppe difese. che era tutto inutile ma non mi muovevo di un centrimetro. che era bello rubare l'ascolto dei tuoi aneddoti osceni. che noi non ne potevamo parlare. che anche cosi erano borse di ghiaccio sulla mia mente malata. sulla mia mente malata di cuore. cuore prestato a un lanciatore di coltelli alle prime armi. riavuto lacerato. logorato. usurpato dal tuo cancro. mentre tu scorrevi e io ti rincorrevo. a zig zag tra gli alberi di quel bosco che portava i nostri nomi incisi su ogni sogno che il lombrico suggeriva. il lombrico logorroico che si arrotolava su se stesso. che forse aveva mal di stomaco, e lo dovevamo aiutare. che abbiamo aiutato tutti tranne noi stessi. e ora è tardi per salvarsi. per salvarci. noi, che oltrepassavamo la linea gialla alla stazione. noi che gli elfi le streghe i flauti i maghi. noi che camminavamo sui binari contromano. e "vivere" era una parola a cui ognuno trovava il suo contrario. e poi ci siamo nascosti senza decidere chi doveva venirci a cercare. che ancora guardo il cielo e la tua assenza. e settembre è sempre ad aspettarti.

che non si sta mai tanto male che non si possa stare peggio

Fumare sigarette con i filtri di cotone
Rullare segatura
Fare la bandiera di carta riciclata
E passeggiare agli Uffizi
Tra i tuoi amici
Presentati in notti accartocciate
Aspettando albe catartiche
I nostri sogni infranti
Pavimenti liquidi
Far arrossire le statue dei pensatori greci
Scambiare ricette di cucina
Seduti in uno di quei teatri soporiferi
Che seguivamo con le dite le lontane coste sarde
Pensando al ponte giusto per farne il girotondo
Ma arrivava sempre il buio a interrompere quel sogno
Partorito con il cielo illuminato a giorno
Che noi per lo più sognavamo con il sole
e la notte a fissare il soffitto, annegate nel dolore.

persino il cazzo si è rotto di me.

Che anche i salici piangenti ridevano di noi. Che autoironia era una brutta parola. E il mare che straripava dalle nostre mani. Abbattere muri abbattere muri abbattere muri. Ed è già ora di guardare il cielo. il tempo con le ali che ci passa sopra. Cercare la muffa nei bagni umidi. Quando tutti cadevano dalle nuvole e tu dicevi saltiamo sopra ora che non c’è nessuno. E una miriade di sguardi diversi che non potevamo incrociare. Come camminare su tegole i legno per sentire scricchiolii sinistri. Come il vino che resta giovane mentre noi venivamo erosi. Come la montagna nascosta dalla cascata. Che svanisce. Che sparisce. Che smentisce le nostre promesse di stabilità. E il sudore eliminava il naturale ciclo delle stagioni. E li conosciamo bene questi odori. Resina pioggia acida sale terra azoto liquido. Non c’è un sogno più breve di te. E ritorniamo a vivere nei seminterrati dei miei castelli in aria. Per vedere camminare le persone. Per nutrire il mio amore maniacale. Per guarire dalle podo-ossessioni. Sparare colpi nella terra. Mirare ai fili d’erba tra il marciapiede e la strada. Tra la terra e la strada. Tra la carcassa del cane che voleva giocare a rincorrere i finestrini e le formiche incolonnate. La storia del trivellatore. Le nostre storie in capitoli da otto pagine ciascuno. Ideare copertine sul far della sera e appenderle in cielo, che fanno luce.