martedì 25 novembre 2008

indosseremo magliette verdi agli anniversari dei tuoi amici morti.

Gli scozzesi suonano sulla collina ancora verde. Noi ci corteggiamo all’ombra del vento caldo. Come fossimo mantidi religiose nella stagione degli amori. E ogni tanto tornano alla mente racconti di un turista italiano sulla nona strada. La strada, le vetrine, le ragazze in vetrina. Mi piacevano, dicevi. Ci sarei stato, dicevi. Io già ti smontavo pezzo per pezzo. L’illusione di ricostruirti, smantellata anche quella. Senza piani regolatori per la tua personalità pandemica. E condivido con i girasoli il piegarsi allo scorrere di chi non potrà mai esserti vicino. Ma non è la lingua giusta, quella che parliamo. Che non capiamo i significati che diamo. Che non capiamo quanto è grande una piscina per chi ha paura di annegare. Acqua gelata. Il Canada d’estate. Reimmergersi nella neve di quei quadri. E guardarsi intorno e vedere dappertutto un po’ d’autunno. Odori e sapori di stagioni non ancora arrivate. Mangiare l’aria per sentirti parte di qualcosa. Per sentirti più piccolo. E rompere bicchieri. E creare arcobaleni fatti in casa. Ed entrare nei tuoi incubi per salvarti dai mostri mangiacarne. Ed essere l’eroe dei tuoi risvegli. E poi immaginare di raccogliere il filo dei tuoi pensieri in una unica matassa. E poi scrivere e scrivere e scrivere per giorni mesi anni. Senza agenti esterni che distraggano me dal tuo filo che attraversa tutto. Che seguirlo è un buon modo per perdersi meglio tra l’estraneità delle tue radici. E inventare nuovi alfabeti per doppiare il tempo. E continuare a scrivere e correre e scrivere e correre e scrivere e correre. E seguire il filo dei tuoi pensieri. Prendendo appunti sull’asfalto. E vedere il gesso finire e avere ancora cose da dire.

domenica 16 novembre 2008

e ti piacevo ad interessi zero.

e arcobaleni a punta che disegnano vulcani spenti.
fare girotondi aperti su isole dai confini incerti.
e nascondere le tue inversioni di marcia sotto il tappeto dei miei rimpianti contro producenti.
mentre contavo i bottoni sulle giacche dei circensi arroccati fuori centri sociali inesistenti.
e pagami gli alimenti
tu che hai preferito la stabilità al mio cuore cocopro.
amori precari già licenziati.
senza casa ne causa.
stiamo ancora pagando il mutuo per la banalità.

lunedì 20 ottobre 2008

e con le tue mani calde hai rotto il guscio

la nebbia uccide i colori. questa notte ha freta d'andarsene mentre l'odore di putrido è spazzato via dalla primavera.
l'umidità sala fin qui in cantina. la solita gente del bar, le birre calde, le partite della domenica, i goal della vittoria, le urla di gioia, i pianti a dirotto, il singhiozzo, le gomitate tra la folla, la corsa ai saldi di fine mese, le vetrine in centro, la biblioteca semi vuota, i quadratini del marciapiede, le strisce pedonali, i cartelloni pubblicitari, la voce che sovrasta, i mezzi pubblici sempre in ritardo, i titoli del tg, lo squillo dell'sms, internet che non si connette, il tuo cuore che si ferma e non riparte, il dolore per una distanza, il ripiego della sconfitta, la morte dell'anima, il respiro affannoso, l'amico del cuore, la statua di marmo, la cazzata delle cinque, la più bella del liceo, il mondo che non è come vorresti, i folletti che fanno l'amore sotto un fungo, l'autostrada contro mano, gli occhi di lui che ti ricordano chi sei, parole di fango, lune di gesso, cieli di merda, amori falliti e mai riprovati, un bagno turco, il pubblico, l'audience, la campagna elettorale, la cravatta a pallini, i lifting, il training, il mobing, la letteratura, la ragazza del tuo migliore amico, il "sei carina ma non mi piaci", "è meglio restare amici", non si vive di principi, una botta e via, tutto se ne va ma per fortuna niente è certo.
io ho ollato. ma gli altri come fanno?

martedì 14 ottobre 2008

e se il giallo non esistesse, i cinesi di che colore sarebbero?

le penne gel. i cerotti come ponti levatoi sulle armate nemiche delle nostre parole taciute. file rdinate di ulivi con i rami che tendono verso il basso. che basta il buio e diventano streghe. che basta la nebbia e diventano mostri. che sembra quasi che io sappia scrivere ma la penna è ancora nella tua mano. che nel ritorno di ogni viaggio chiedevi "i cinesi esistono davvero?". che ci tagliavamo con frammenti di ricordi di sogni fatti da svegli. e non c'è più musica nelle parole. che tutto tace ma senza pace. e mi immergo nella pece per farlo meglio questo saggio. che cerchiamo la vetta della montagna sui fondali inquinati. e proviamo a guardare lontano ma ci blocchiamo sempre allo stesso orizzonte.

le tue cure senza cuore

lo diceva anche lui che ha il nome di un fiume, sentirsi soli come un numero primo. che almeno quello è primo e tu sei solo multiplo. sei pari. sei folle. sei una folla, al cinema, al mercato, al teatro. numero emancipato. di certo non razionale. aspettare in stazione che qualcuno ti venga a reclamare. a portare monete nelle nostre tasche vuote. a riempirci la testa di pensieri per farci morire. che solo morendo possiamo scoprirci ancora in vita. ancora per poco. e tuonano le tue parole da padre nelle mie notti pastose. i timpani fabbricano rumori da sentire. le tempie si svestono della tua pressione.
scendiamo fino al cuore. battiti come segnalibri sulle pagine da cancellare. senza epilogo che ci possa far finire. e ritorniamo a sporgerci sul pozzo dei desideri. sulla fontana di Trevi. senza niente da chiedere per risparmiare. che ogni sogno è una moneta e inquiniamo il fondale. e si alza il sipario di rimpianti. e insceniamo i nostri cuori distorti dietro le quinte di questi anni. ma ora basta pensarci, meglio studiare. mi senti?

lunedì 8 settembre 2008

anche per morire c'era un modo migliore

l'uomo di Perugia che suonava il violino. ce l'ho stampato in testa. dal naso grosso. a parlare con te di vecchi cortometraggi ambientati nei Balcani. di guerre d'altri tempi. del secolo scorso. parole che rapiscono orecchie senza troppe difese. che era tutto inutile ma non mi muovevo di un centrimetro. che era bello rubare l'ascolto dei tuoi aneddoti osceni. che noi non ne potevamo parlare. che anche cosi erano borse di ghiaccio sulla mia mente malata. sulla mia mente malata di cuore. cuore prestato a un lanciatore di coltelli alle prime armi. riavuto lacerato. logorato. usurpato dal tuo cancro. mentre tu scorrevi e io ti rincorrevo. a zig zag tra gli alberi di quel bosco che portava i nostri nomi incisi su ogni sogno che il lombrico suggeriva. il lombrico logorroico che si arrotolava su se stesso. che forse aveva mal di stomaco, e lo dovevamo aiutare. che abbiamo aiutato tutti tranne noi stessi. e ora è tardi per salvarsi. per salvarci. noi, che oltrepassavamo la linea gialla alla stazione. noi che gli elfi le streghe i flauti i maghi. noi che camminavamo sui binari contromano. e "vivere" era una parola a cui ognuno trovava il suo contrario. e poi ci siamo nascosti senza decidere chi doveva venirci a cercare. che ancora guardo il cielo e la tua assenza. e settembre è sempre ad aspettarti.

che non si sta mai tanto male che non si possa stare peggio

Fumare sigarette con i filtri di cotone
Rullare segatura
Fare la bandiera di carta riciclata
E passeggiare agli Uffizi
Tra i tuoi amici
Presentati in notti accartocciate
Aspettando albe catartiche
I nostri sogni infranti
Pavimenti liquidi
Far arrossire le statue dei pensatori greci
Scambiare ricette di cucina
Seduti in uno di quei teatri soporiferi
Che seguivamo con le dite le lontane coste sarde
Pensando al ponte giusto per farne il girotondo
Ma arrivava sempre il buio a interrompere quel sogno
Partorito con il cielo illuminato a giorno
Che noi per lo più sognavamo con il sole
e la notte a fissare il soffitto, annegate nel dolore.

persino il cazzo si è rotto di me.

Che anche i salici piangenti ridevano di noi. Che autoironia era una brutta parola. E il mare che straripava dalle nostre mani. Abbattere muri abbattere muri abbattere muri. Ed è già ora di guardare il cielo. il tempo con le ali che ci passa sopra. Cercare la muffa nei bagni umidi. Quando tutti cadevano dalle nuvole e tu dicevi saltiamo sopra ora che non c’è nessuno. E una miriade di sguardi diversi che non potevamo incrociare. Come camminare su tegole i legno per sentire scricchiolii sinistri. Come il vino che resta giovane mentre noi venivamo erosi. Come la montagna nascosta dalla cascata. Che svanisce. Che sparisce. Che smentisce le nostre promesse di stabilità. E il sudore eliminava il naturale ciclo delle stagioni. E li conosciamo bene questi odori. Resina pioggia acida sale terra azoto liquido. Non c’è un sogno più breve di te. E ritorniamo a vivere nei seminterrati dei miei castelli in aria. Per vedere camminare le persone. Per nutrire il mio amore maniacale. Per guarire dalle podo-ossessioni. Sparare colpi nella terra. Mirare ai fili d’erba tra il marciapiede e la strada. Tra la terra e la strada. Tra la carcassa del cane che voleva giocare a rincorrere i finestrini e le formiche incolonnate. La storia del trivellatore. Le nostre storie in capitoli da otto pagine ciascuno. Ideare copertine sul far della sera e appenderle in cielo, che fanno luce.

giovedì 24 luglio 2008

"che le cose perfette non ci portano fortuna, dobbiamo metterci di impegno e rovinarle ad una ad una"

Che era bello iniettarsi il mare nelle vene e restare a guardare. scarabocchiarci le mani coi gessetti colorati. Cancellare la cornice dei quadri appesi alla parete. E sentire marciare i reparti speciali e abbattere i nostri alberi sacri. E sfogliare i tuoi capelli che sono romanzi francesi. E accendiamo una lite che c’è troppo buio intorno. E cominciamo a girare veloce cosi sembriamo una cosa nuova. Una cosa sola. Che disegnavamo sorrisi sulle nostre labbra viola. Che annegavamo nei sensi di colpa gettandoci in quel fiume. E i pomeriggi stesi al sole per non lasciare aloni sui nostri visi. E poi ti vedo costruire un castello di sabbia. Il gatto è salito sul tetto. Ti butti nell’acqua, immerso fino alla testa. E dietro quel gesto c’è un senso nascosto. E curvi sopra un cruciverba ti lascio un disegno. Lo capiamo solo adesso che il senso è questo. E ora che è estate ti rivedo d’inverno, impegnato nel buio a lasciarmi un segno.

e portiamoci dietro la corrente

Che non mi interessava sopprimere il mare ma descrivere un’onda. E amplifichiamo lo sguardo per vedere quanto buio c’è intorno. Che smantellavamo i vecchi alfabeti nel narrarci i nostri incubi. E sforavamo gli orari per osservare i quadranti. Che la vita o si vive o si scrive. E tu non scrivi più. Che non sai come si fa, dici. Che sono vecchio ormai, dici. Ma un poeta non può che avere 21 anni per sempre. E noi avevamo il nostro futuro di troppo. Che non ci è stato condonato. Che ci ha condannato. E ci hanno vendemmiato. Calpestate le nostre vite per imbottigliare ricordi. Che saranno aceto su vecchie ferite. Come quando la tua ombra si allungava nel cuore di quella notte che cuore non aveva. E sventoliamo come bandiere bianche nel freddo artico. Nel vento che sfugge punge trascorre trafigge. Che cosi ci mimetizziamo bene. Che cosi è più facile non vedersi. Che nel freddo anestetico non si sente più niente. Non si muove più niente. Altalene vuote e intorpidite che ci ringhiano. E se mi guardi non ti ricordi del lombrico che ci parlava. Del cavallo che volava. E tiriamo il freno a mano per l’abbassamento del cielo. Cosi ci inventiamo un soppalco e poi lo tocchiamo. Come una casetta sul cielo. E diamo una forma alle stelle. Cosi lo sguardo buca l’atmosfera. Come ozono. Come se bastasse l’effetto serra per farci fiorire. Dipingere i tuoi paesaggi sulle mensole piene di polvere. E lasciare le vecchie promesse ghiacciare tra le rate del frigorifero.

mercoledì 2 luglio 2008

a mare. col sale che asciuga i tuoi sguardi umidi.

Parole scadute, sfiorite, sfiatate. Fuggite.
Parole che fanno l’amore tra le righe. Che si rincorrono tra i roghi. E nel fuoco tu ci anneghi. I tuoi occhi nella notte come proiettili d’argento. Tu come il sole che ustiona. E non toccarmi che tutto brucia. E non guardarmi che tutto sconfina. e non lasciarmi che tutto si incrina. Che averti accanto è un’illusione ottica. Che se anche lo so niente appare diverso. e fumiamo ancora fuori le porte dell’ospedale. Accompagnati dal solo canto delle sirene. Mentre tutto dentro tace. Mentre avvolgi nel velluto la tua croce. Mentre la cicala frinisce senza pace. Che non abbiamo più discorsi seri. Che siamo solo noi e sembra essere in tre. Angeli malati terminali che non hanno più cieli in cui volare. Incatenati dalla gravità. Malati di inefficienza. Che non c’è recesso per le tue promesse. Le nostre vacanze come corone di spine. Senza rose da ammirare. Senza petali da strappare. Senza denaro, né amore, né cielo. solo cuori da rianimare. e anime da rincuorare.

giovedì 29 maggio 2008

rinvenire le tue impronte digitali sui miei occhi.

Domenica pomeriggio e c’era la piazza. Con gli stand per venderti qualcosa. Le piante della salute. A noi. A noi che sguazzavamo nei pianti della salute. Che le maniche lunghe le avevamo tagliate perché tremare ci piace. Vivere nel freddo che uccide. Con le labbra viola. la pelle bianca. Il cuore che rallenta. Hai perso, ritenta. Rientra. Mangiare carbone dolce dentro una scatola di cartone. Che era una nave. Scorrere nell’Acheronte che era il corridoio immaginato male. Sbucciarsi le ginocchia sul fondale. Mercurio cromo sostituito dal catrame. E vedo fermarsi il sistema solare. Intorno ai soli di rame. I pianeti quadrati che rotolano come dadi. E avanziamo sicuri di qualche casella nel caos dello spazio interstellare. Fare dell’universo il nostro gioco di società. Una spa. Montare un tramonto nel giardino che cosi non ci lasciamo mai col buio.

ma i cani ruttano?

Fare un raschiamento alla terra con le mani. Per farla abortire. Per asportarle il seme. Dopo aver circumnavigato la collina. Che forse era un parco. Non ti sedere a terra che è sporco. Guarda il tramonto come cambia aspetto. Una collina per un lombrico. Che alla fine l’abbiamo pure trovato. Lasciato dondolare tra le dita. Sollevato da quella terra violentata. Senza un minimo di accortezza. Mentre si alzava la brezza. E l’abbiamo lasciato con una buonanotte. Che poi ci sarebbe toccata la stessa sorte. Senza arte ne carte. Per leggerti il passato. Per sapere se tutto quell’amore era concentrato. Che forse non sapevi che andava diluito. Che comunque sarebbe finito in ogni caso. Ma forse dopo essere scaduto. E invece ci siamo sfiniti. Acquistati e logorati dall’uso incauto di noi stessi che ci confondevamo sempre le mani nelle tasche. Con la carta d’identità scaduta e lasciata a riva. L’indennità emotiva. Che non ce la siamo concessa e ora siamo rimasti aperti. Sgasati. Sdoganati dall’assenza di chi deve rianimarci. Che tutto crolla sul pavimento in vetro che non si rompe e se ne fotte. E noi ci siamo sotto. E guardiamo tutto. Spaventati dall’inviolabilità del nostro simulacro. La nostra fossa senza scavi. Noi che le meraviglie del mondo moderno non ci sfiorano neanche quando ci crollano addosso.

morire un po' alla volta, che tanto non ho fretta.

Scriviamo i nostri nomi ovunque e chiudiamo gli occhi per non guardarci intorno. Il giorno muore in scacco matto mangiato dalla banda del sogno interrotto. Che tutto è già stato detto e non rimane che sentirlo. Inscrivere il caos nelle tabelle, e soffocare tra le griglie. Le pelle che stringe sul corpo. Pelle che hai lavato male. E si è ritirata. A vita privata. Pelle dai pori dilatati per cambiare l’aria, che è viziata. Che è entrata e non più uscita. Aria che hai dentro mentre soffochi. Mentre sei sulla spazzatura e sei tra la spazzatura e sei spazzatura e ridi nonostante il cattivo odore.

domenica 11 maggio 2008

ti cerco ancora dal basso dei cieli.

Ti scopre per contrasto la voglia di scrivere. Ti coglie come un’intuizione che sfugge continuamente alla presa. Crollano le tue certezze ed il tuo mondo rotola alla ricerca di un fondo. Ho un lombrico sulla carta e tanti grilli per la testa. E ti schiaccia la voglia di giustizia. Un pavimento che continua a salire mentre il soffitto continua a scendere. L’attesa di una fine che non sai quanto possa essere importante. Anche oggi è passato che sei già nel futuro. E la, al confine tra la sera e nottefonda, il buio permette ancora di seguirne i contorni e pare suggerirti che di notte non si muore ma si sogna. Scorre il tempo sul display dell’orologio senza lancette che ne determinano la toccata e fuga, e stai fermo immobile riscaldato dai tuoi desideri. E tutto intorno crolla mentre ascolti un violino. E tutto intorno crolla mentre il bambino continua a giocare da solo col suo palloncino, e ride e gira in tondo. Le formiche sulle gambe e il mondo intero sembra riderne di gusto. Io ho i miei segreti e tu i miei desideri.
C’è l’aiuola dove il cane riposa in pace. Non conoscevo ancora quella parte di me che poi scivolò dal mondo. Intorno c’è l’erba che nasce da terra. E dopo le urla e gli schiamazzi, dopo la tua insopportabile bellezza, quell’innocua svogliatezza, vedo persone silenziose con le unghie sporche che mi graffiano la faccia. Quel fiore un senso ce l’ha. Contiamo le foglie ma inizia tu. Io ho le mie paure e tu i miei pensieri. E nulla è più complesso di una formica. E formiche sulle gambe una meta ce l’hanno. Mentre il giorno è passato tra i canti dei pastori.
E anche se è appena nata la mattina io già zoppico dal sonno.

come incidere il tronco di un bonsai.

Basterebbe aprire gli occhi. Intanto io compro un paio di scarpe nuove e saluto tutti E continuo la mia vita come in un acquario, sognando il sole dell’Africa. Spero che lui sia laggiù. Spero di farcela a rompere il vetro e oltrepassare il confine. Spero di rivedere il mio amico, un giorno, e stringergli la mano. Spero che il deserto sia rosso come nei miei sogni. spero di sbagliarmi. Questo è il mio più grande desiderio. Quello di essermi completamente sbagliata.

sposto mobili. creo nuovi spazi.

giochi la tua mossa con tremenda astuzia che già mi mandi in scacco matto
mentre nel buio fisiologico i miei mostri originari si creano percussioni africanee
cerco ancora di aspirare la polvere che ricopre il mio meglio
e le hai 2 euro da mettere nel carrello?
ed è solo colpa dei film americani se pensi che certe movenze siano volgari
mentre crollano i pilastri del mio egocentrismo
come i buoni propositi sotto l'esame del fondamentalista islamico
mentre le nubi tergiversano nell'aprire un varco
e tu siedi alla mia destra nella piccola utilitaria chiesta in prestito al papà di turno
mentre il custode resta solo con la sua opera d'arte
e io che ne sono uscito incolume dagli sbalzi d'umore dettati dalla montatura dei tuoi occhiali senza lenti
ancora provo a gettarla via questa vita
che come un boomerang mi ritorna sempre addosso
e il cane che volevi a tutti i costi addestrare
continua ad eccitarsi sulla mia gamba
mentre la neve ci cade addosso e li si arresta
e a nessuno verrebbe in mente di agire d'istinto
e ognuno è pieno di difese come un governo che crolla
anche se per ora è meglio non parlarne.
Fortificati
Arrangiati
Maledicimi

sabato 10 maggio 2008

un libro ha sempre un inizio e una fine.

e ha una porta che si varca. quando la pietra è ancora lava.
che noi ci siamo entrati e ci siamo persi.
e insieme era l'inferno. da indagare in penombra.
da setacciarne gli angoli. per trovarne il senso.
per stringere col pugno cosa non era inferno.
per scendere a terra sui tuoi trampoli. che ti tengono in alto.
che nei tuoi capelli si impigliava la luna.
che annulla le paure. imponiamo l'ordine e la misura.
che la vita va preservata. conservata. collezionata.
e noi la vendiamo di seconda mano.
e la mettiamo all'asta.
che è tutto quello che ci resta
e più non ci interessa, alzare la testa
se non puoi calcolare il cielo
che è ancora in città
dove il peggio non si vede.

martedì 29 aprile 2008

tritare i ghiacci tritare i ghiacci tritare i ghiacci tritare i ghiacci

Ho detto basta. E non ne capivo la portata. Gli effetti collaterali.
Che causa raramente la morte ma tutto può essere.
Era la terza fase che il telefono ha suonato
E ho cercato di fare qualche cosa per cambiare questo sfondo
Questi muri spessi
Che non sono quelli che attraversavi e non sono quelli che attraverso
Quando uccidevi la paura con un solo gesto
Quello strano giorno che non ricordo
Che poi i tuoi passi alzavano il vento che a stento avevamo addormentato.
E ci guardiamo intorno contando gli estranei che ci abitano il nostro mondo
Che lo vivono, che lo deteriorano
Che ce lo cambiano mentre non ci siamo.
E poi mi chiedi dove ho messo le chiavi che non ho mai toccato. Attendere un po’ di fiducia. Baciarsi nella nebbia per far finta di non esserci. E regalami questa vita. Ma non credi sia vera. Dormi che io continuo a contare le corde della tua chitarra immaginaria. E perché non facciamo che siamo soli insieme? Che non c’era niente da salvare ma volevamo arrenderci insieme. vestiti di bianco. Il battesimo di una nuova ispirazione. Un amore amaro dal dolce finale. La naturale conclusione del nostro ciclo. Che era come crescerci in un unico guscio che il freddo ha rotto. Che il freddo ci ha tolto la primavera dagli occhi. Che le poso le nostre scatole, richiuse, sigillate. E cerco un’altra casa che mi protegga. Un altro quartiere che mi accolga. Un’altra storia che mi contenga. Che mi leggo ancora scorrere nei tuoi titoli di coda. Mentre la sala è vuota e le luci spente. E cerco nuovi spunti per accelerare il naturale processo di eliminazione. Che lo dicevi anche tu, “forse sei un congegno che si spegne da se”.

sabato 19 aprile 2008

tu lo sai. che le parole si lanciano. ti si scaraventano addosso. e ti entrano dentro. e un buco te lo lasciano. e a volte si riempie di stronzate che non sai come liberartene. che ti sembra di avere una mosca nel cervello. e noi giochiamo e le regole ce le facciamo mentre andiamo avanti. che gli alberi si incastrano nel mondo. e i suoni si sovrappongono. e i rom danzano nei loro campi recintati. nei nostri ricordi riscritti. nel caffè ristretto col sonno che si espande a macchia d'olio. e gli odori della terra che ci salgono sopra. ci accarezzano. ci ammazzeremo di noia ma anche un po' di gioia. la gioia dei tuoi andirivieni. l'andropausa di riflessione. la costante incognita. il sistema. le elezioni. e ristrutturare casa che non è mai come la volevi. che bastava dire come la volevi. che le foto non hanno date ma solo margini. che ci veniamo incontro solo se ci spingono. e sorridiamo ai muri che crollano. agli ubriachi che barcollano. alla notte di porcellana. e ti strapperei la luna a morsi da quel cielo di merda che hai.

e non faccio mai centro nei tuoi silenzi concentrici.

E trovi la musica nelle parole e ti piace lasciarti ascoltare. Col cuore contuso. Ammaccato. Che se succede, sterzo per non venirti addosso. Col quello scheletrico ricordo di due sulle scale. E non ci piaceva fumare. Ma solo aspettare. Solo cancellare i bordi delle parole. Senza che i sensi ci irretissero. Senza che i significati ci pescassero. Che le tue pietre nell’acqua rimbalzano e le mie la bucano. Che poi ci entra la sabbia nelle scarpe. Che il mare stanca anche quando non lo vedi mai. E ci stai male. E vorresti scoppiare. Da dentro. Implodere. Creare i colori dei fuochi. Nel silenzio di un vuoto scavato a mano. I nostri periodi senza subordinate. In quei giorni che parlare sembra quasi irriverente. E allora le schiene si incontrano. I vortici inghiottono i nostri cavalieri solitari. E ci disarmiamo di comune accordo. Per morirci insieme. Per distoglierci dalla vita. Per distrarci dall’esistenza. E invaderci nei corpi come turisti in chiese gotiche. Estasiati nel buio di chi sogna la grandezza. Affamati di quiete. E strappi da me qualcosa con tutte le radici. E la mostri per qualche giorno. E poi passi ad altro. Mentre i miei pensieri zoppicano per quello che mi hai tolto.

che l'Italia sembra ancora più stretta.

Ricordo ancora i sogni di mio padre. Che io li avevo scartati. Che lui li ha ustionati. Di abitudini. Di passati. Di “concetrati su quello che fai e fallo bene”. Che tu ancora non ci sei. E guardo le stagioni che lasciano i tuoi discorsi inermi. ora che in quei tuoi silenzi di velluto non vedo più colori. Ora che ti ho visto, che sei viva, e torno vivo anch’io. I pomeriggi passati a chiederci in quale fase lunare eravamo. Il tempo di un momento, e sui tuoi sensi ci ricamo. Che l’hai messo a dieta il mio cuore. E ora amo poco. Ora amo meno. Che si può amare anche peggio di cosi, ma sto dando il massimo. Che non volevi essere uno sconfitto ma solo un sognatore. Che sei un amen sussurrato. Un animale morente. E mi estirpo il dente del giudizio e il mio ego del cazzo. Che in quello stato non ci torno. Che per te non mi accontento. Che nelle ombre ritrovo la nebbia e mi condiziono. Che la faccio la mia marcia trionfale su Roma anche se ho perso. Anche se non c’è verso da farti cambiare. Mentre scopro che eri solo una canzone cantata a squarciagola nel nostro piccolo teatro degli errori.

domenica 6 aprile 2008

ci siamo rotti.

e tu ora sei morto e scopi da dio. e scopi con dio. e io resto un aborto mancato. la fogna del cielo. cieli appena verniciati. imbottiti. imbrattati di scritte da ultrà. cani sciolti ovunque. Saba. Ungaretti. Montale. Calvino. Gadda. Pavese. i falò. le spiagge. la città dei matti. le frane. la sparatoria al semaforo. i fiori di plastica. che non so se è quello che cerco. che non so se è quello che voglio. ed è la natura morta del tuo sguardo. ed è il cemento che non c'è più giù al porto. al porto. dove scalavi pietre per piangere di fronte la costa. dove chiedevi che ne pensavo dei capelli rasta. dove aspettavamo la sera per andare altrove. per raccontarci le storie. per scopare comunque. e cambiare quel disegno che è sempre meglio un altro. che ne pensiamo sempre uno diverso.e guidiamo le nostre macchine telecomandate in parcheggi deserti.

sabato 5 aprile 2008

tutto ciò che non ho fatto nella vita, non l'ho fatto per principio.

andiamo a guardare i buchi dei cieli. e sarei falso ad essere sincero. che non è quello che voglio. che non è quello che sono. mastico gomme di pane. che la gente fa male e a volte bisogna stare male. che la cucina è una macelleria. che comincia il conto alla rovescia in quella cucina che sembra una macelleria. e la vecchia signora cattiva ci stringe la mano. e guarda il sale della vita che mi alza la pressione. e la cultura brasiliana è sempre un po' sabbiosa. e le rime non ci sono. e la musica tace. e il telefono squilla. il nostro amore vorace ha espulso tutto il resto. e uscire di casa in mutande blu. e prendere il treno in mutande blu. e ascoltare Rino Gaetano in mutande blu. blu. giù. più. tu. due parallele che si perdono di vista. un gomitolo di piani esistenziale. trascendere. speculare. varcare il confine tra lo specchio e il trucco. e la tua vita è solo un libro che si legge in un'ora.

lunedì 31 marzo 2008

che all'amore son venute le rughe d'espressione.

I nostri davanzali senza piante. Yann Tiersen. Dove andrai a dormire? no. Io no. Non soffiarci anche tu sopra. Lascia perdere la cascata, il lago, le montagne innevate, i camaleonti, l’Africa, i budini, le tuniche. Perché agonizzare? E tuo padre mastica con le gengive. e dentro il cerchio tutto era interessante. E non c’è paragone. E a me Yann Tiersen fa ancora impazzire. E infine non lo trovo per nulla edificante vederti a due passi senza volerti. Se parli e non riesco a sentirti. Se vivi e non riesco a gestirti. Siamo caduti alle prove generali. E fanculo le prime. Fanculo i sipari, le scene, i riflettori. Coreografi, tecnici e registi. Te che ti trucchi, te che reciti, te che ti spogli. Te che sei il comico di sempre. Che fa ridere il mondo. E dietro le quinte l’eterno ritorno. È il divertimento che ci manca. E muoviti, che la torta si taglia. E senza luce non hai tempo.

che avevamo confuso il cuore con quei sigari alla vaniglia...

E giochiamo col portachiavi e il bambino ci vende rose senza odore. E salire le scale con le mani. Vivere alla ricerca del mago di Oz. Vivere come in una barzelletta triste. Vivere vivere vivere e ora ancora basta. Il sassofonista delle mie notti insonni. E tu facevi i tuoi riassunti. E inventavamo le colonne sonore. E scrivevi canzoni troppo lunghe e ti dimenticavi la consecutio tempore. E tutto finiva in fretta. Mentre la barba cresceva senza sosta. E secondo me il volume è troppo alto. E ti mangio con gli occhi, ma cosi a masticare non ci riesci. E non sorpassare in curva. E inventati una buona scusa per la zia sarda. Che dei parenti non c’ho voglia. Che la mia memoria si sfalda. E lo stomaco di contorce. E il panda tra poco si estingue. E internet non si connette. E ogni verso è una storia a parte. Basta con l’autonomia. Basta con i sabato sera.

E gli alberi che Loris credeva morti. Che poi erano solo spogli.

Eppure l’aloe cresce lenta nel suo spiazzo. I vasetti di conserve unti già nel tappo.
Le tue ventotto poesie d’amore e d’altre guerre
Le allergie al polline
Le marche di orologi senza prezzo. Che poi un lavoro non lo trovi mai
Neanche se cerchi, neanche se preghi
E cominci a camminare solo su mattonelle bianche
E cominci ad evitare le linee dei marciapiedi
E poni domande ad un bottone
E te che il lago di Como non l’hai mai visto però te l’hanno raccontato bene
E non è neanche facile pensare di essere vivi
Quando si è solo giovani e stronzi
E non fingere di essere il mio Zimbawe
Che l’ho fatta io la tua guerra dei trent’anni.

domenica 30 marzo 2008

che l'amore giù in paese è un servizio comunale.

e non rimane che scriverne, se tutto è già esaurito. che ieri camminavi senza fretta con un coltello in bocca. e oggi potresti uccidere gente mentre parli. e ti ripari nel forno che fuori c'è vento. che fuori fa freddo. che fuori c'è il sale sulle strade. e a me non piace partecipare. che era solo una caccia al tesoro ma non avevo fucili. e andiamo a scovare i buchi che lasciano i lombrichi. me lo diresti ora che era solo paura? e siamo amanti travestiti da fenomeni da baraccone. e il tuo circo ha chiuso le tende. e il gatto non graffia più. hai un altro sogno marcio. e io muoio e non ci penso al senso della tua sensibilità da ragazza. ai tessuti scozzesi. alle mostre su a Firenze. ai linguaggi cinema e video. alle adolescenze e devianze. a rai3 che è sempre fuori orario. ad un oceano verticale da scalare. che l'amore giù in paese è un servizio comunale che ti viene da star male pure a te.

venerdì 28 marzo 2008

c'era una volta un volto di cera.

come pure stare soli. come pure grattare i muri. sgretolarli. trafiggerli. come guardare il soffitto. come lanciare un pappagallo verde dai tuoi aeroplani di carta. come un mare di cose da fare e non sapere nuotare. il letto di Lucia. le poesie di Tim Burton. come amarsi in una camera a gas. porsi domande sulle vongole. contarsi i capelli. vedere l'aria verde. e scusami ma questo non l'ho capito. e scusami ma non sai spiegarti. e scusami ma non ho sbagliato io. e la sabbia volava. e il rumore delle chiavi quando cammini. e mi fermo a guardarti le mani. e rompo i miei vetri interiori. e sono sette anni di disgrazie l'uno ma basta non farlo sapere.

e ancora una volta quel niente mi devasta la vita.

una lezione che sta per terminare
cambia la flebo al malato terminale
strappo la carta e il mio bambino non ride
ma cade
ma incide
un bassorilievo sul davanzale
mi lancia una sfida
la sciarpa gialla ha cambiato colore
l'odore, il rumore, il mare, l'andare
gli orizzonti storti
il cuore che brucia
qualcuno ci soffia sopra
la cenere vola e dove l'hai messa la capra?
attento che muore e la panca si affranta
dal dolore
e al dente che duole è meglio non pensare
che la lingua è l'unica cosa che batte
che il cielo l'hai coperto e non so cosa nasconde
che amare nuoce gravemente te e chi ti sta intorno
che amare provoca infarti e ictus
e aneurisma cerebrale
che per smettere non sai a chi cercare
per farti aiutare
che per fare l'obiettore di coscienza basta mettere una firma
e anche la penna è un'arma
se i tuoi giochi di parole non hanno regole
e chi perde è un incosciente.

sabato 22 marzo 2008

patate riso e cozze. dovresti sedare i tuoi mostri quando mi guardi.

Mentre le ultime lettere cambiano come i deserti e ci fanno ridere sempre le stesse cose. Giornate lunghe due ore. Di sole. E non amo il sole. Ed è come stare in nave. Tra le signore in calore. E c’è un pianoforte nel buio che solo dio potrebbe suonare. E guardiamoli i pesci grandi che mangiano i pesci piccoli. I cane mangia cane. I bimbiminchia. Le soffitte impolverate. I concerti dei subsonica nei locali incensurati. Le forze elettrostatiche. Le lampade a petrolio. Il vino di Aloisio. I libri sul catalogo.
Morte di un amore a perdere senza più colore
E centrifugo il senso dei miei monologhi. E ti vergogni se non riesco a districarmi tra le mie paranoie. È sbagliato e fuori discussione, dovrei sentirmi. E lascio scorrermi veloce i tuoi commenti un po’ paterni sullo stato sulle strade e sui prezzi del mercato. E la rendi più difficile in ogni gesto. Che se esco mi guardo intorno e ho una crisi di rigetto. Maledette le parole che mi fanno indifferente. E dei miei sto male è meglio non parlarne. È l’istinto ad evitarti. Che rivorrei quel trucco. È dura da far piangere i nostri folletti epilettici. E di sonno ne abbiam perso se ancora siamo fianco a fianco, mentre i Muse suonano in quel buco di locale e il freddo è l’unica cosa che si sente.

giovedì 20 marzo 2008

come se qualcuno agitasse ancora le nostre palle di vetro.

luci di tramonto. orizzonti solitari. lacrime che corrono sul bagnasciuga e il vento caldo trascina i gabbiani a largo. le note della tua chitarra immaginaria sovrastano e ricoprono le nostre voci schive. non ho fogli da lasciare incustoditi. non ho sciarpe da dimenticare sul divano. solo il tuo pensiero ricorrente da lasciare in macchina. al sole. senza abbassare il finestrino di un dito. solo i titoli di coda del film cileno da guardare al rallentatore. solo la luna da prendere a morsi. ed è la soglia che si pietrifica dal dolore. il viandante che trova la tavola apparecchiata. il pazzo del centro che canta a squarciagola il suo ritornello. non ho più l'ambizione di rincorrerti. non ho umori da manifestarti. è un cielo di gomma che si mastica. una sposa che scappa. un malato che scende le scale. un ferroviere che deve frenare. un canale che si deve cambiare. il tempo che deve passare. l'amore che deve sfiorire. la primavera che tarda ad arrivare. le parole che provano a fuggire. e i blog che continuano a parlare.

mercoledì 20 febbraio 2008

martedì 5 febbraio 2008

andiamo in altre direzioni dove passano i treni

È vero, ci sono i randagi sulla spiaggia. E guarda quel padre che gioca col figlio tra le braccia. Non hai fatto molti soggiorni all’estero, non hai molti sogni ambizioni buone intenzioni, è che sei sempre stato solo. Ma stasera mi butto con te sull’anestetico. È che sei sempre stato solo. Lo vedi anche tu che c’è la direzione dei treni. E se non hai patente libretto documenti vai bene. Senza me vai bene. Pensare che andavi li a passare le ferie, portando da mangiare. E se notavi qualcosa di strano dicevi andrà bene il mio sogno malato e lo proteggevi. Senza falsi futuri scolpivi nella mia vita una quiete di marmo. E senza falsi futuri vivrai se per sempre sotto i ricordi. Vedrai vedrai. Non è il cielo che va via. Non cacciare dalla spiaggia i nostri randagi. Zitto, che non riesco ancora a parlare di te. Poi dopo qualche tempo in questo ballo di san vito ti rimetterai in cammino e silenzioso entrerai nella casa tutta in ordine. Tra il folklore delle genti che ti lascerai al fianco, in chiese bombardate, in rifugi antiatomici abbandonati, sulle vie che ancora non portano il tuo nome. E tutte le genti che dimenticheranno le tue parole e abbandoniamo l’Egitto con i suoi fili d’ombra. Noi che ci giudicavamo dall’alto dei nostri canoni immaginari. Noi che cucivamo discorsi tristi col filo dei nostri libri sconsacrati. Stanotte e altre notti verranno anche se le tue mille avventure non hanno verità. Bagni di fango, corse mattutine, tutto l’occidente, nomi in codici, la genetica e la gente, il rispetto e l’orgoglio, e non ti costa niente se sei sempre tu tutto il mio dire, tutto il fare. Passami l’anestetico. E non mi dici grazie. E il gatto fa le fusa all’uomo di paglia aspettando che la pioggia smetta goccia a goccia. D’estate il cielo si spoglia. Ritorna il tuo tempo nel tempo. E si addormentano le cose e gli interessi. E se c’è qualcosa è già finita. E non hai mai niente da dire, e scrivi. E ciascuno ha le sue gocce che cadono fragili scavando i ricordi dell’estate. Mentre con gli altri si che lo farei a fare complimenti e dire sempre che mi va di essere normale. Devi fermarti poco prima di sfiorarmi. Sei forte come il mio papà. Vedi che ho la febbre? Ormai parlarmi è inutile. Ho fatto un sogno in cui ho visto le scimmie più verdi del paese vestite da antichi romani. Ho la febbre, parlarmi è ancora inutile. Scrivimi pure il testamento, ma per favore non lasciarmi niente. Dai, scrivilo, che per me il dolore non si sente. Scrivi pure di me, nome cognome indirizzo numero di telefono. Scrivimi pure di me. Scrivimi pure di me. Scrivimi pure di me. Ma fermati prima che i tuoi sbalzi mi intrappolino di nuovo nel circo di fantasie inedite. Non ho nessuna precedente esperienza di lavoro anche se lui veniva qui a trascorrere le ferie, tutto intorno a me. E ti proteggerò da chi vorrà farti del male ma non ci riuscivi. E dopo qualche giorno si rimise in cammino.

martedì 15 gennaio 2008

pensieri che non ho

vorrei essere l'autore delle citazioni che compaiono nei tuoi discorsi
un artista col fegato lacerato che gioca a fare il morto
alzare gli occhi al cielo e incontrare il soffitto
simulare un orgasmo per non perdere la rincorsa
tu e la pesantezza della tua collezione di pietre
mostri marini su barelle di cemento si iniettano insulina
vorrei un nuovo disegno da appendere sul muro
vorrei vivere nella fobia degli ascensori
vorrei chiudere in un barattolo i miei sogni infranti
cantare in veranda vecchie canzoni country battendo il piede a tempo
vorrei che avessi conservato una storia porno per la prossima notte
a vomitare sui nostri pavimenti di marmo
e prendere il futuro a piccole dosi
e sentire i camionisti fischiettare fino all'alba.

sabato 12 gennaio 2008

e c'era l'incanto del tuo volto nelle squame cadute di un vecchio serpente

i volontari raccolgono le carcasse dai bordi della strada. un trapezista perde sangue sulle teste dei suoi osservatori. c'è ancora luce nei tuoi pugni chiusi di macellaio. col gran freddo smetterà di germogliare il frutto dei tuoi ripensamenti. eterne indecisioni. similitudini incolte. monete lanciate e mai rincorse. l'ultima lettera di un suicida morto. scaricare i miei sensi di colpa nel cesso. fare i baffi al quadro della madonna. al quadro della gioconda. al quadro di mia nonna defunta. sentire gli odori che escono dal televisore. soluzioni alternative. il concime universale per il nostro inganno. do da mangiare al pesce rosso che mi nuota intorno. aspetto impaziente il fumetto del pistolero distratto. e covo le uova del mio rimorso. come la madre che accompagna la figlia al catechismo. senza figure storiche a predirmi il passato. senza noci di cocco da prendere a martellate. riponendo l'accetta nella legnaia. sognando un pessimo raccolto.

o sono io che vivo male o è il male che vive in me.

quando sto in piedi troppo a lungo. quando a chiudere gli occhi non ci riesco. l'autorizzazione per l'allestimento del mio inceneritore personale sul divano letto in soggiorno. inizio il conto alla rovescia per l'autodistruzione. il tuo pensiero agita mani e braccia per restare a galla nei miei maremoti. cominciare a leggere un libro sull'età degli unicorni. la raccolta dei rifiuti passa alla stessa ora dei miei lupi mannari. sono uno scrittore che si finge un uomo. quando guardo la tv con dentro le sue spremute d'arancia nei bidoncini bianchi e vorrei un frigo enorme e lo stomaco inerte. e sono chiuse le nostre finestre disegnate sul muro. e tu hai la voce sinuosa di chi sta giocando al gioco del diavolo. e anche se i pulman di notte non passano il bar di notte è pieno di gente. finchè non sarai qui nulla potrà peggiorare. finchè non sarai qui nulla potrà peggiorare. mentre aspetto che la pecora torni nel suo ovile e lancio marmellata dal balcone.
e mi hanno dato i compiti per casa e sono solo cento flessioni in serie da venti
e metto i tuoi capelli amaranto nel frullatore ad immersione
e comincio a deglutire con i tuoi inverni in ogni angolo.

venerdì 11 gennaio 2008

il mio embrione di felicità annegato nel tuo liquido amniotico

gli elastici dei calzini e le tue piccole grida isteriche. sei quel livido che appare sull'avanbraccio in un giorno qualunque. senza urti, senza dolore, senza passato. mastico i chew-gum del discount mentre le autogrill sfornano caffè in continuazione. ti ho ridotto a relitto e riportato alla luce. e sei più importante di prima. ora che non sei niente, ora che sei vecchia, ora che non ha più nessun ruolo. il mio patrimonio archeologico. il museo delle mie pene. si è staccato l'angolo destro del poster del rivoluzionario sul muro di fronte la finestra. lo sento stremato nell'ingenuo tentativo di resistere alla gravità. ci sono forze più prepotenti di te. e anche se non ho più il mio tempo libero e le mie scorte di birra e l'adesivo dei mondiali non vuol dire che tu abbia una buona scusa per tutto. i piani del sabato sera sono per lo più un "ciao come stai?". provo a ricomporre il puzzle con una chitarra. i miei piani per il sabato sera falliscono a causa dei miei piani per il sabato sera. la mia palla da boowling non ha mai fatto strike e per ogni uscita di pista le tue scimmie ammaestrate danzano sul mio ego ferito. io che perdo l'autobus e da te non viene più nessuno. anche se quella gita al lago non l'abbiamo più fatta.
ora che non ho più ultime occasioni da concedermi
mentre tu disegni i contorni dei tuoi incubi in letti umidi
mentre io ancora lotto col tuo pensiero clandestino nel mio corpo
e il trangolo delle bermuda ha perso il suo fascino
e la mia solitudine era indipendenza da te
e ora convivo col suo desiderio freddo chiudo nel barattolo del sale
col silenzio enorme che ha lasciato il tuo passaggio
come il corteo d'un funerale in cui io disteso ad occhi chiusi
non sapevo e non chiedevo dove mi stessero portando
come la bambola dei tuoi giochi violenti
e ancora aspetto che la gamba mi sostenga appena passi il formicolio.

lunedì 7 gennaio 2008

quando tu cucinavi perchè ti divertiva vedermi morire di fame

sento la tua voce ripararmi dal freddo e tu sei chiusa in bagno. sono sotto una pioggia di sassi e nulla fa più male di te. le mattonelle scollate del bagno non tengono conto delle nostre giostre. gli sms che ti chiedono come stai. e le domande che vorrebbero rivelare tutto. e gli sms che chiedono dove sei. e le tue risposte che non arrivano. e io che vorrei avere un angolo antiatomico per le tue esplosioni ormonali. ed intanto a gattoni su un parquet immaginario cerco le parole che mi hai tolto. le insegne dei negozi non si spengono anche se dentro non c'è più nessuno. mi cadi addosso e non ho il mio cappuccio d'amianto. c'è quel documentario che ti piaceva un botto. tu che nella tua macchina di cartapesta canti canzoni degli anni 80 simulando un inglese perfetto. seduta al tavolino c'è quel tipo di straniera col suo cocktail di metà mattina. signorina buonasera. maledetto il giorno che ti ho incotrato. io ti amerò sempre. non fare lo scemo. un giorno staremo insieme fino alla fine. in fondo io ti amo. tu giri intorno al tuo sguardo e non ti cogli con quell'espressione impotente. aspetti che si svegli a primavera. Sara è morta. riponi le tue vene nel cassetto e ti addentri senza sangue nei meandri dei suoi sogni. sei il suo sogno e non stai dormendo con lei. è solo uno scaldaletto vivente. ti rifugi in un treno. sbucci un mandarino. l'odore si fa strada lungo i bordi. e anche per oggi sarà l'alba.

domenica 6 gennaio 2008

se avessi bevuto un bicchiere di vino ce ne saremmo andati insieme domani

Ehi, Francis, il tuo amico è morto. hai la faccia abbandonata tra le mani. i gomiti che poggiano sul tavolo. il quadro è storto e anche i cavalli raffigurati sembrano aggrapparsi agli incroci della tela. Dai Francis, rispondi a questo cazzo di telefono. è lunedi mattina ma non ci hai ancora fatto caso. il lavandino perde acqua, lei continua a chiamarti, tu continui a perdere punti. il tuo amico è morto di lunedi mattina. non hai mangiato. non hai aperto la finestra. non hai controllato la posta. i pesci osservano te nel tuo acquario. si annoiano. li annoi. c'è un paio di calzini sul termosifone. dei raggi di sole si intrufolano come ladri nella tua gotica inquietudine. arrivi in chiesa. ti guardi intorno. guardi l'altare. ti perdi. l'angolo del coro. immagini Jeff Buckley con una chitarra al collo fermo a mangiarsi le unghie. ti tocca aspettare. hai ancora voglia di alzare gli occhi al cielo. un cielo trafficato da dei, angeli, donne vergini e uomini morti. un cielo intasato. ti trattieni. non sai a chi chiedere il permesso di rivendicare la tua parte di cielo. un cielo vuoto, sgombro, inerme. solo una mensola per qualche nuvola e un paio di birre. Jeff Buckley sale sull'altare. prende il microfono. vorresti alzare la mano e chiedergli finalmente Chi cazzo è Grace. non sei riuscito a evitare che lei si slegasse. non sei riuscito a trattenere niente. anche questo ti poteva succedere. lo sapevi amico, poteva succedere. le messe non finiscono se in chiesa sei solo.

sabato 5 gennaio 2008

vivere m'ammazza.

hai 22 anni e non puoi farci niente. dico 101, dico 102, dico 103 e il faro torna a fare un unico lampeggio. vive. è li. girato verso non so dove a illuminare non so cosa. si gira ogni volta che qualcuno lo chiama. impazzisce. aspetti col tuo caffè in mano. è caldo. volendo, puoi berlo subito. non scotta. pur volendo, non aspettare troppo. diventa freddo. gira l'angolo e parti nel tuo viaggio interstellare per galassie eteronomiche. hai 22 anni e non hai fatto niente per averli. tuo padre ha finito di farti raccomandazioni sul sesso. tuo nonno è morto subito dopo la liberazione. il cane c'è sempre, seduto in corridoio, vicino la porta d'ingresso, e si limita a scondinzolare o, se si sente in forma, alza testa e orecchie per dire T'ho visto. tua madre non è molto cambiata, ora ti sembra vecchia da sempre. hai 22 anni e chi tiene ancora il naso schiacciato contro il vetro non può essere poi cosi stupido. la tua finestra a forma di rettangolo orizzontale divisa in tre rettangoli verticali. il muco che ti scende giù la naso. la manica del maglione che riporta tutto alla normalità. una città piccola ma comunque più grande delle menti aperte che la animano. l'odore del mare che è sempre più puzza di pesce. un corteo senza capo ne coda blocca una strada del centro. hai 22 anni e vorresti guardare con occhi nuovi tutto ciò che non è mai cambiato. ti stendi sul letto, di fianco, e le pulsazione nell'orecchio. le conti. le perdi. riconti. ti dimentichi che le stai contando. pensi ad altro. le ananas. le mosche. le piaghe sui talloni. i piedi gonfi che straripano dalle scarpe. i buchi delle serrature. le cinture di sicurezza. le urla. gli schiamazzi. gli antuncanfè. e cipiticipiti. i blablabla e gli spatafem. immagini il processo di creazione del burro. del formaggio. la tosatura delle pecore. la mungitura del latte. l'odore di te che non ti lavi da giorni. sei stanco. hai 22 anni ed è come se non avessi mai dormito. mai bevuto. mai aperto gli occhi. mai amato. hai 22 anni e sei fermo al centro di una lista per donatori. sei paziente. equilibrato. ti avvicini al punto d'esplosione, sempre più velocemente, sempre più attratto da quella gravità enorme. ne senti il penso. ne sei schiacciato. curvo, continui a camminare. a raggiungerlo, il botto finale. come la grande guerra che tutto cambia. come il bambino che scoppia e il palloncino che piange. perso nell'universo come un semplice relitto. chiedendo asilo ad ogni orbita che capiti a tiro. cerchi un'asteroide in affitto. poi succede. sobbalzi. ti volti. hai sempre 22 anni, la tua vita banale, i tuoi discrsi sul sesso, la macchina con qualche spia sempre accesa e un'anima da rottamare. poi ti svegli, una mattina, con la tua cucina sporca. il tuo caffè. il tuo buongiorno. il tuo computer spento. i tuoi vestiti a terra. il telefono che sembra più morto di te. puzzi ancora. poi ti decidi, e dopo un paio d'ore qualcosa la fai. una pulita te la dai. un blog lo apri. niente sfoghi post-adolescenziali, ti dici. ma ci ricadi. e ti rialzi. e ci ricadi. e ti rialzi. e ci ricadi.